Il tema della durata dell’immunità nelle persone risultate positive al SARS-CoV-2 è uno dei più discussi a livello scientifico e, ad oggi, non si ha ancora una risposta definitiva ed univoca a riguardo.
Quello che sappiamo è che, a seguito dell’infezione primaria contratta con le varianti Alpha o Delta, oltre il 90% dei pazienti sviluppa una positività per gli anticorpi contro SARS-CoV-2, anche quelli così detti neutralizzanti che hanno, cioè, la capacità di bloccare il virus ancor prima che questo infetti le nostre cellule. Ciò nonostante, diversi studi hanno rilevato, in modo abbastanza consistente, che gli anticorpi neutralizzanti tendono a diminuire nei primi mesi dopo l'infezione. Il tasso di diminuzione degli anticorpi risulta molto variabile tra i 6 e i 10 mesi e questo sembrerebbe dipendere da due fattori:
Nonostante la durata dell'immunità rimanga per lo più sconosciuta, sappiamo che le persone che si sono ammalate di Covid-19 in seguito ad infezione delle varianti Alpha o Delta presentano un minor rischio di reinfezione con la stessa variante rispetto a chi non è mai venuto a contatto con il SARS-CoV-2.
È possibile quindi che ci siano altri fattori oltre agli anticorpi che ci permettono di non ammalarci più di Covid-19 qualora incontrassimo nuovamente il SARS-CoV-2? E cosa possiamo dire ora alla luce della diffusione della nuova variante Omicron?
Per rispondere a questa domanda approfondiamo ancora come funziona il sistema immunitario, uno strumento di difesa potentissimo e molto efficace.
Durante l’infezione causata da un nuovo virus, il nostro organismo è in grado di riconoscere l’agente "estraneo" ed eliminarlo attraverso due compartimenti diversi del sistema immune: la risposta immunitaria definita ‘innata’ e una definita ‘adattativa’.
Il sistema innato rappresenta la prima linea di difesa, quella più antica e primitiva, che permette all’organismo di rispondere in modo generalizzato e aspecifico ad un nuovo patogeno. Fanno parte del sistema immunitario innato diversi tipi di cellule (mastociti, eosinofili, basofili, macrofagi, neutrofili e cellule dendritiche) che hanno meccanismi di funzionamento molto diversi tra di loro, ma che sono tutti in grado di identificare e/o di eliminare gli agenti patogeni.
In seguito alla risposta innata, entra in gioco la risposta adattativa, un sistema relativamente più lento nella risposta ma in grado di specializzarsi in maggior misura ed attaccare in modo altamente specifico il nuovo patogeno. Questo secondo sistema si basa sull’attivazione dei linfociti B e T, capaci di riconoscere in modo molto mirato alcune parti della struttura del nuovo patogeno.
Nel caso di SARS-CoV-2, i linfociti B e T sono in grado di riconoscere diverse proteine del virus, in particolare la proteina Spike presente sulla sua superficie. Quando i linfociti B e T incontrano il coronavirus, si specializzano rispondendo solo a questo determinato virus.
Le cellule B produrranno anticorpi contro SARS-CoV-2, che saranno rilasciati nel sangue, tra cui i famosi anticorpi neutralizzanti contro la proteina Spike, mentre le cellule T specifiche contro il SARS-CoV-2 saranno in grado di perlustrare tutto il nostro corpo alla ricerca di cellule infettate dal virus, che dovranno essere quindi eliminate.
La particolarità del sistema immunitario adattativo è che presenta una memoria immunologica ovvero esistono particolari tipi di cellule B e T, dette appunto cellule della memoria, che sono in grado di annidarsi all’interno del nostro midollo osseo e restare in una sorta di letargo (definito stato di quiescenza). In realtà queste sono sempre pronte a risvegliarsi e a compiere le loro funzioni qualora lo stesso patogeno, verso cui sono programmate, dovesse reinfettare il nostro organismo.
La domanda che in tanti si fanno oggi è: il nostro organismo è in grado di rispondere a successivi attacchi da parte del SARS-CoV-2 anche in assenza di misurabili livelli di anticorpi, sviluppati in seguito al Covid-19?
In un lavoro pubblicato a maggio 2021, Jackson Turner, insieme ai suoi colleghi, ha provato a rispondere a questa domanda, caratterizzando a fondo le risposte immunitarie innescate nell’uomo in seguito all’infezione virale.
Lo studio, pubblicato su Nature, dimostra che l'infezione da SARS-CoV-2 induce una robusta risposta immunitaria di lunga durata. Gli autori hanno infatti confermato che i pazienti che si sono ammalati di Covid-19, possiedono anticorpi anti-SARS-CoV-2 rilevabili fino a 11 mesi dopo l'infezione. Il monitoraggio delle concentrazioni di anticorpi nel sangue degli individui effettuato in un anno intero, ha mostrato che durante la risposta immunitaria acuta, cioè al momento dell'infezione iniziale, le concentrazioni di anticorpi erano elevate. Successivamente, come previsto, questi hanno iniziato a diminuire ma dopo alcuni mesi le loro concentrazioni si sono stabilizzate rimanendo più o meno costanti.
Gli autori poi hanno voluto identificare nel midollo osseo anche la presenza di cellule B della memoria contro la proteina virale Spike, ritrovate in ben 15 individui convalescenti su 19 pure a infezione superata. La cosa positiva, affermata da Turner e colleghi, è che questa risposta immunitaria di lunga durata viene sviluppata anche in seguito ad un’infezione da SARS-CoV-2 lieve.
Mediante un'analisi più approfondita delle cellule B della memoria, i ricercatori hanno dimostrato che queste erano effettivamente “quiescenti”: non si moltiplicavano più e non producevano molti anticorpi, ma erano pronte a svegliarsi nel momento del bisogno. Infine, calcolando il loro numero hanno identificato che circa il 10-20% delle cellule B che si generano in una reazione immunitaria acuta contro un particolare patogeno, si trasforma in cellule B della memoria. Questo è coerente con quanto ci si aspettava e, a conferma di questa evidenza, gli autori hanno quantificato che il numero di cellule B della memoria contro SARS-CoV-2 era uguale a quello delle cellule B della memoria trovate negli individui dopo la vaccinazione contro il tetano o la difterite. La speranza è che, come avviene per la memoria immunitaria per questi vaccini, anche la durata delle cellule B contro il SARS-CoV-2 possa essere stabile per decenni o addirittura per tutta la vita.
Al lavoro di Turner si aggiunge la conferma di uno studio di un gruppo australiano. Anche loro hanno riportato che un calo degli anticorpi sierici durante la convalescenza potrebbe non riflettere il declino dell'immunità, ma piuttosto una contrazione della risposta immunitaria, con lo sviluppo e la persistenza di cellule B della memoria di lunga durata nel midollo osseo. In questo studio eseguito su 25 persone positive al SARS-CoV-2, gli autori hanno dimostrato che in tutti gli anticorpi sierici raggiungono il picco 20 giorni dopo l'infezione per poi iniziare una fase declino. Le cellule B della memoria specifiche del virus sono state identificate già dalle prime fasi della convalescenza e persistevano per oltre 242 giorni dopo l'insorgenza dei sintomi.
Quello che appare evidente da questi due importanti lavori è che il meccanismo alla base della risposta immunitaria prevede una prima risposta canonica condotta dalle cellule B con produzione transitoria di anticorpi nelle fasi iniziali della malattia, che diminuiscono poi abbastanza rapidamente. A questa fase seguono livelli più stabili di anticorpi, supportati da cellule B della memoria di lunga durata che si rifugiano nel midollo osseo molto tempo dopo l’infezione primaria. Queste ultime offrono una fonte durevole di anticorpi protettivi, necessari per mantenere nel tempo una protezione immunitaria.
Ma non è finita qui. I dati sulle cellule B possono portare a pensare che la stessa cosa valga per le cellule T, l’altro sistema di difesa dell’immunità adattativa. Anche questo particolare tipo di linfociti, come le cellule B, si attiva durante la fase acuta della malattia e può svolgere due diverse funzioni: da una parte ci sono le cellule T ‘aiutanti’ (T helper), chiamate così perché aiutano le cellule B a produrre anticorpi altamente mirati contro il nuovo patogeno, e poi ci sono le cosiddette cellule T ‘citotossiche’, che pattugliano in continuazione tutto il nostro corpo alla ricerca di cellule infettate dal virus verso le quali sono addestrate al fine di eliminarle.
Quello che sappiamo ad oggi è che quasi tutti i pazienti convalescenti Covid-19 sviluppano cellule T attivate in risposta all'infezione SARS-CoV-2. Un gruppo di ricercatori svedesi del Karolinska University Hospital ha eseguito analisi immunologiche su oltre 200 persone con Covid-19, molte delle quali con sintomi lievi o asintomatici. L’aspetto più interessante emerso è che i pazienti con Covid-19 grave sviluppavano sia una forte risposta anticorpale che una risposta orchestrata dai linfociti T; mentre quelli con sintomi più lievi non sempre avevano sviluppato una risposta anticorpale. Nonostante ciò, la maggior parte di queste persone asintomatiche mostrava una marcata risposta dei linfociti T. Inoltre, non erano solo gli individui con Covid-19 confermato a mostrare l'immunità dei linfociti T, ma anche molti dei loro familiari esposti e rimasti sempre asintomatici, suggerendo che la risposta delle cellule T da sola possa conferire protezione anche senza sviluppare anticorpi. A conferma di ciò, la cosa più sorprendente identificata è che circa il 30% delle persone che avevano donato il sangue a maggio 2020, aveva cellule T specifiche per il coronavirus, un numero molto più alto di quanto hanno dimostrato i precedenti test anticorpali.
Queste differenze potrebbero spiegare il motivo per cui alcune persone, pur essendo infettate dal virus, non sviluppano cellule B e quindi anticorpi misurabili nel sangue, ma combattono rapidamente l’infezione mediante una risposta guidata dalle cellule T.
Per capire la potenziale immunità a lungo termine garantita delle cellule T, un gruppo di ricercatori della Duke-NUS Medical School ha dimostrato nel 2020 che alcune persone che avevano contratto la SARS causata dal SARS-CoV nel 2003 presentavano a 17 anni di distanza una risposta immunitaria al virus basata sulle cellule T, facendo ben sperare in una simile risposta anche per il SARS-CoV-2. Sebbene questi dati siano molto incoraggianti, quello che si è osservato è esattamente ciò che ci si aspetta dal nostro sistema immunitario, ovvero che risponda in modo molto specifico e duraturo ad una nuova infezione generando cellule B e T specifiche.
La scoperta più significativa è però emersa da tre lavori indipendenti che sono giunti alla stessa conclusione: anche in circa il 30-40% di persone mai entrate in contatto con SARS-CoV-2 erano presenti delle cellule T in grado di riconoscere ed eliminare il virus. Come è possibile che soggetti mai esposti al virus abbiano nel loro corpo cellule T specifiche in grado di rispondergli?
Gli studiosi hanno scoperto che esistono delle cellule T che sono in grado di riconoscere diversi virus che presentano delle caratteristiche strutturali comuni (in termine tecnico ‘cross-reattive’) e che sono in grado di reagire a più virus contemporaneamente. Nello specifico, in questi studi hanno dimostrato che i soggetti che avevano incontrato i più comuni coronavirus stagionali del raffreddore (HCoV-OC43, HcoV-229E, HCoV-NL63 e HcoV-HKU1) presentavano delle cellule T in grado di riconoscere ed eliminare anche SARS-CoV-2.
Sulla base dei loro risultati, quindi, i ricercatori ipotizzano che un'esposizione preesistente ai virus del raffreddore possa contribuire alle variazioni della gravità della malattia nei pazienti che contraggono Covid-19.
Come ormai abbiamo imparato, i virus una volta entrati nel nostro corpo si adattano e mutano per sopravvivere il più a lungo possibile.
Il SARS-CoV-2 non è da meno: ogni volta che infetta una persona diversa, può sviluppare delle piccole mutazioni nel suo RNA capaci di renderlo maggiormente ‘adatto alla sopravvivenza’ nell’ospite.
Da qui il termine “varianti del virus” che stanno destando tanta preoccupazione in tutto il mondo. Le mutazioni studiate sono per la maggior parte quelle che riguardano la proteina Spike in quanto potrebbero modificare la capacità del SARS-CoV-2 di entrare nelle nostre cellule, diffondendosi più rapidamente.
Con l’obiettivo di identificare la capacità delle cellule T di neutralizzare tutte le varianti del SARS-CoV-2, il gruppo di ricerca guidato da Andrew Redd della Johns Hopkins University School of Medicine ha analizzato il sangue di 30 persone, che avevano contratto Covid-19 ad inizio pandemia, quando ancora nessuna delle varianti si era generata. Con grosso stupore e un pizzico di ottimismo, i ricercatori sono stati in grado di dimostrare che la risposta delle cellule T era rimasta praticamente intatta contro le diverse varianti. Questo ci permetterebbe di mantenere un’efficiente immunità a lungo termine anche nello sfortunato caso in cui alcune varianti, come sembrerebbe essere per le varianti Beta e Gamma, acquisissero una parziale resistenza agli anticorpi generati durante l’infezione con il SARS-CoV-2 originario non mutato.
Anche le cellule T prodotte in seguito a vaccinazione sembrano essere efficaci nello sviluppare un'immunità contro tutte le varianti del SARS-CoV-2. Un lavoro pubblicato su Nature Medicine dimostra che, anche dopo sei mesi dalla seconda dose di vaccino anti-Covid-19, nel nostro organismo permangono un numero elevato di cellule T che sono in grado di rispondere ed offrire protezione anche nei confronti della variante Omicron. Quindi, nonostante quest'ultima sia così tanto infettiva e colpisca in media 3 milioni di persone al giorno in tutto il mondo, la malattia risulta meno severa e la mortalità più bassa. Le spiegazioni possibili sono due:
Può succedere che molti individui siano in grado di difendersi da alcune malattie anche grazie all’immunità preesistente. Cosa significa? L’aver incontrato un agente infettivo in passato, fa sì che il sistema immunitario lo riesca a riconoscere anche a distanza di tempo. Sonia Gandhi, ricercatrice statunitense, ha dimostrato che una certa risposta immunitaria a SARS-Cov-2 può essere indotta qualche volta dal comune Coronavirus del raffreddore.
In Olanda hanno rilevato che nel sangue di alcuni donatori, prelevato dieci anni fa, erano presenti anticorpi contro il SARS-CoV-2. Potrebbe essere accaduto, quindi, che questi donatori abbiano incontrato in passato qualcosa che assomigliasse all'attuale coronavirus sviluppando una protezione verso l'agente patogeno.
Come ormai sappiamo tutti, i vaccini disponibili si sono dimostrati un’arma molto valida nel combattere la pandemia innescata dalle prime varianti (fino alla delta), con un’efficacia che varia dal 70-80% nei vaccini a vettore virale, e una ancora maggiore, tra il 90-95%, nei più innovativi vaccini a mRNA. Indipendentemente dall’efficacia, tutti i vaccini disponibili sono in grado di proteggere con elevata efficacia dalle forme severe di Covid-19 e questo è uno degli aspetti più importanti per ridurre notevolmente l’ospedalizzazione e la mortalità nelle persone positive al SARS-CoV-2.
Nella maggior parte degli studi condotti su persone vaccinate, l’attenzione è sempre stata posta sulla produzione di specifici anticorpi neutralizzanti contro il virus, ritenuta come un surrogato più immediato per valutare la capacità dei vaccini di proteggerci dall’infezione. Un gruppo dell’Harvard Medical School di Boston ha dimostrato (maggio 2021) come la risposta indotta dalle cellule T in seguito a vaccinazione sia stata ampiamente preservata contro tutte le varianti di SARS-CoV-2 , almeno fino alla Delta, anche nel caso in cui gli anticorpi neutralizzanti non si dimostravano così efficaci nel bloccare il virus. Resta ora da capire se anche nei vaccinati, oltre agli anticorpi che si sviluppano nel breve periodo che segue la vaccinazione, si generino cellule B della memoria, che ci garantirebbero una protezione a lungo termine per diversi anni come succede per molti vaccini. Alcuni dati pubblicati a giugno 2021 sembrerebbero dimostrare proprio questa ipotesi.
Sia l’infezione naturale che la vaccinazione offrono protezione contro la malattia severa Covid-19, attivando risposte immunitarie antivirali. In particolare, la vaccinazione consente di attivare la risposta immunitaria contro SARS-CoV-2 permettendo di creare anticorpi neutralizzanti e cellule T specifiche anche in assenza di patogeno, senza quindi sviluppare la malattia che si potrebbe avere dopo infezione naturale.
Ma ci sono dei reali benefici nell’immunità indotta dalla vaccinazione rispetto o quella generata dall’infezione naturale? Da quanto riportato a giugno 2021 dalla Swiss National Covid-19 Science Task Force, un gruppo di esperti/e che operano, su base volontaria, per garantire una consulenza scientifica e indipendente, sembrerebbe che l’immunità indotta da vaccinazioni sia più potente di quella indotta dall’infezione naturale. Questa ipotesi sembrerebbe confermata da Greaney e colleghi, i quali hanno dimostrato che la conformazione della proteina Spike, che viene prodotta in seguito al vaccino a mRNA, è leggermente diversa da quella della proteina Spike presente sul virus. Questo sembrerebbe influire positivamente sul meccanismo di funzionamento del vaccino, in quanto si svilupperebbero anticorpi molto più efficaci nel bloccare il virus rispetto a quelli che si generano durante l'infezione naturale.
Per non parlare di un'altra evidenza: le persone che si vaccinano avendo già fatto in precedenza il Covid-19. I dati ufficiali riportano che a Gennaio 2022 circa il 20% della popolazione italiana ha avuto una diagnosi di laboratorio di positività al SARS-CoV-2. Questa percentuale, in realtà, potrebbe essere molto più alta dato che la maggior parte delle infezioni (si stima tra l’80 e il 90%) rimane asintomatica e non viene quindi diagnosticata. In questo numero piuttosto elevato di persone si genera una particolare forma di immunità, detta “ibrida”, in cui l'immunità naturale si combina a quella generata dal vaccino inducendo una risposta anticorpale da 25 a 100 volte maggiore, guidata da cellule B di memoria e cellule T, con più alta protezione dalle varianti del virus. Questo significa avere un’immunità molto forte e duratura. Per questa ragione, è sempre consigliato fare la vaccinazione anche dopo aver contratto il virus.
A Novembre 2021 è stata identificata per la prima volta nella regione Sudafricana del Gauteng nuova variante di SARS-CoV-2. Omicron presenta un totale di 46 mutazioni all’interno del suo genoma, di cui ben 30 localizzate all’interno della sequenza della proteina Spike. Dato questo elevato numero di mutazioni senza precedenti, la variante Omicron è stata subito classificata come “VOC - Variant Of Concern” dall’Organizzazione Mondiale della Sanità.
L'origine di questa variante non è chiara, le ipotesi principali sono due:
La comunità scientifica si è prontamente messa al lavoro per studiare nel dettaglio i potenziali effetti di questa nuova variante. In pochi mesi studi di laboratorio hanno suggerito che, rispetto alle precedenti varianti, Omicron è più efficiente nell'infettare le vie aeree superiori mentre ha una ridotta capacità di infettare i polmoni. Questo potrebbe spiegare perché la nuova variante causa una malattia meno grave, con sintomi principalmente limitati alle alte vie aeree, come raffreddore e mal di gola. Sebbene ancora preliminari, i primi dati provenienti da Sudafrica, Gran Bretagna e Danimarca (How severe are Omicron infections?, Early assessment of the clinical severity of the SARS-CoV-2 Omicron variant in South Africa) sulla gravità clinica dei pazienti infettati da Omicron sembrano suggerire una riduzione del rischio di ricovero rispetto a Delta. Va però detto che l’apparente ridotta gravità di Omicron potrebbe dipendere dalla protezione sulle forme severe di malattia conferita da un alto tasso di vaccinazione della popolazione oppure da una minor pericolosità del virus di per sé.
Inoltre, Omicron è caratterizzata da una maggiore contagiosità e, quindi, trasmissibilità, come dimostrato dall'elevato numero di contagi osservati in tutto il mondo tra novembre e gennaio. Questa caratteristica potrebbe essere causata sia dalla sua capacità di replicarsi molto facilmente nelle alte vie aeree superiori, sia dalla capacità di sfuggire agli anticorpi neutralizzanti generati da precedente infezione o da vaccinazione. Diversi studi (Considerable escape of SARS-CoV-2 Omicron to antibody neutralization, Omicron, the great escape artist) hanno infatti dimostrato che, a causa delle numerose mutazioni presenti nella sequenza della proteina Spike, sia l'efficacia degli anticorpi neutralizzanti generati da vaccino nei confronti di questa variante sia quella degli anticorpi sviluppati in seguito ad infezioni causate da altre varianti di SARS-CoV-2 è significativamente ridotta.
In Italia il Ministero della Salute raccomanda la somministrazione della dose di richiamo o booster in tutti i cittadini over 12. Il richiamo è stato consigliato sulla base di ultime evidenze secondo cui a 4-6 mesi dalla seconda dose di vaccino, la risposta anticorpale tendeva a diminuire. Questa diminuzione favorirebbe la possibilità di contrarre l'infezione anche in persone che hanno completato il ciclo vaccinale. La dose di richiamo a 4-6 mesi di distanza dalla seconda dose è in grado di far aumentare i livelli anticorpali, riducendo così il rischio di infezione soprattutto ora con la diffusione della variante Omicron.
In tale occasione c'è la possibilità di effettuare il richiamo con un vaccino diverso rispetto a quello utilizzato nel primo ciclo vaccinale. Questa pratica, (mix and match), infatti, sarebbe più efficace come dimostrato anche in questo lavoro. A chi è stato somministrato il vaccino monodose di J&J o le due dosi di AstraZeneca viene consigliato un "booster" con un vaccino diverso, in particolare a mRNA. Così come a chi ha effettuato le prime due dosi con Pfizer viene somministrato il Moderna, o viceversa.
Studi molto recenti dimostrano che il booster conferisca una maggiore protezione anche verso l'ultima variante in circolazione, la Omicron. Va però detto che, anche i vaccinati con booster, possono comunque infettarsi e sviluppare malattia, seppur con sintomatologia lieve, come affermano gli autori di questo lavoro.
Al momento non conosciamo la quantità esatta di anticorpi neutralizzanti e cellule T necessari per stabilire una protezione dall’infezione. Nel complesso però, tutti gli studi riportati rappresentano una prova robusta che l'infezione da SARS-CoV-2 o la vaccinazione provocano l'avvio di una risposta immunitaria che si sviluppa su più fronti. Dunque, se questi dati saranno ulteriormente confermati, i timori di una pandemia destinata a durare anni, con ricadute stagionali, e della necessità di richiami annuali del vaccino, sarebbero cancellati grazie ad un’immunità duratura contro il virus.
Bibliografia:
Luca Perico - Laboratorio di Biologia Cellulare e Medicina Rigenerativa - Dipartimento di Medicina Molecolare
Raffaella Gatta - Content manager