Nei giorni scorsi il caso di Indi, la piccola affetta da una rara malattia mitocondriale, è diventato il centro di un nuovo dibattito etico e giuridico. Il quadro clinico di Indi era estremamente grave, coinvolgendo danni irreversibili al cervello, al cuore e ad altri organi. Come nel caso di Charlie Gard nel 2017, anche per Indi, mentre i genitori cercavano soluzioni in tutto il mondo, le comunità medica e giuridica inglesi hanno dovuto affrontare il difficile compito di bilanciare la speranza di guarigione con la necessità di evitare ulteriori sofferenze al bambino, perché nonostante siano passati sei anni la sindrome da deplezione del DNA mitocondriale non ha ancora una cura.
La sindrome da deplezione del DNA mitocondriale è una condizione genetica rara che colpisce il materiale genetico presente nei mitocondri, le "centrali energetiche" delle cellule. A causa di questa disfunzione viene compromessa la capacità delle cellule di produrre energia in modo efficiente e di contribuire in questo modo alla funzione dell'intero organismo. La malattia evolve molto velocemente causando diverse complicanze che coinvolgono i tessuti a elevato dispendio energetico, come il sistema nervoso centrale, il cuore, il sistema muscolo scheletrico, i polmoni arrivando a provocare un’insufficienza respiratoria e costringendo il paziente alla ventilazione artificiale. Nella maggior parte dei casi i bambini affetti dalla sindrome da deplezione del DNA mitocondriale muoiono prima di aver compiuto i due anni proprio a causa delle tante complicazioni che colpiscono l'organismo.
Del caso di Charlie Gard si era occupato, nel 2017, il Prof. Remuzzi in un articolo pubblicato sul Corriere “Charlie Gard e i medici che staccano la spina”, che qui riproponiamo, per rispondere alle stesse domande che oggi si è posta nuovamente l’opinione pubblica:
"Come è possibile che certi medici decidano di far morire un bambino e di farlo contro il parere dei genitori?” E ancora: "Che diritto hanno i giudici inglesi e poi quelli della Corte europea dei diritti dell’uomo di negare perfino l'ultima speranza a un bambino gravemente malato?".
Detta così parrebbe proprio che i medici di Great Ormond Street Hospital abbiano sbagliato. E che i giudici, nel decidere che un bimbo di nemmeno un anno debba smettere di vivere, si stiano prendendo una licenza che non gli compete. Tanto più che ci sarebbe una cura sperimentale, mai studiata davvero nell'uomo, d'accordo, ma nei topi sì e funziona. E allora perché non provare? I perché sono tanti; vediamoli uno dopo l'altro.
La sindrome da deplezione del DNA mitocondriale è rarissima: a parte l'estrema debolezza dei muscoli - tutti i muscoli, anche quelli che servono per respirare e per deglutire - la malattia si associa a danni gravissimi al cervello e poi al cuore (è un muscolo anche lui) e poi al fegato, allo stomaco, all'intestino. Come se non bastasse, ci sono acidosi lattica e danni renali. Di fronte a un quadro così drammatico, cosa hanno fatto i pediatri di Londra? Il possibile e l'impossibile: lo hanno nutrito e idratato artificialmente, lo hanno fatto respirare con una macchina perché i muscoli di Charlie erano troppo deboli per deglutire e anche solo perché potesse respirare da solo. Mamma e papà erano accanto a lui in rianimazione giorno e notte per nove interminabili mesi, le condizioni di Charlie continuavano a peggiorare, questo lo vedevano anche loro, ma Charlie era ancora lì, potevano accarezzarlo, abbracciarlo, perfino parlargli e illudersi che il loro bambino sentisse e riconoscesse le loro voci. I medici di Great Ormond Street erano pessimisti ma Connie e Chris non ne volevano sapere. "Ci sarà pure qualcuno in qualche parte del mondo che ha visto bambini così e che li sa curare, chissà forse i medici di Londra non sono poi così aggiornati...".
Quando non sono vicino a Charlie, Connie e Chris sono al computer a cercare storie di altri bambini con lo stesso difetto genetico. E così scoprono che con la stessa variante di Charlie ce ne sono altri sette di bambini morti tutti in tenerissima età, “forse i medici di Great Ormond Street hanno ragione…”. I genitori di Charlie però non si rassegnano, ormai sanno tutto di deplezione del DNA mitocondriale da mutazione del gene RRM2B - così si chiama la malattia che affligge il loro meraviglioso bambino - e scovano due lavori sui topi fatti a Stoccolma da biochimici che, già da qualche anno, si erano messi in testa di correggerlo, quel difetto genetico. Come? Sono riusciti ad avere topi con una mutazione del DNA molto simile a quella di Charlie. Quei topi appena nati sembravano normali, poi però cominciavano ad avere gli stessi sintomi dei bambini con la deplezione mitocondriale e nel giro di pochi giorni morivano. L’impresa di provare a curarli sembrava disperata ma la scienza fa miracoli, certe volte, e i ricercatori del Karolinska hanno avuto l'idea giusta: incrociare i topi malati con altri che esprimono in eccesso un gene capace di produrre quello che serve per migliorare la funzione dei mitocondri; i nati da questo incrocio avevano una malattia meno grave e vivevano più a lungo.
Nulla di tutto questo si può fare nell’uomo, almeno per adesso, ma c’era un’ultima possibilità, forse, quella che i medici chiamano “terapia nucleosidica”. Si tratta di una cura a base di deossicitidina e deossitimidina, messa a punto da biologi della Columbia University di New York. Queste sostanze si somministrano per bocca e allungano la vita – dei topi – di qualche settimana. Funzionerà nell’uomo? Non abbiamo nessuna idea, ma Connie e Chris le cose le guardano con altri occhi ed è un gran bene (tanti dei successi recenti nella cura delle malattie rare si devono proprio agli stimoli formidabili che ci arrivano quasi ogni giorno dagli ammalati). “Perché non proviamo con la cura dei nucleosidi, quella dei dottori di New York?” si chiedono. Ne parlano con i pediatri che sarebbero anche disponibili, tanto più che c’è qualcuno negli Stati Uniti che lo farebbe, ma ci vogliono tanti soldi.
Connie e Chris non si danno per vinti, creano una Fondazione che riesce a raccogliere in poco tempo tutti i soldi che servono. Nessuno, però, nemmeno chi ha proposto quella cura, pensa che il piccolo possa prenderne vantaggio: “E’ troppo presto, siamo solo agli inizi di una storia che forse ci porterà da qualche parte, forse no”. E poi, se qualcuno in qualche parte del mondo sapesse curare le malattie da deplezione mitocondriale, lo sapremmo e quella cura sarebbe a disposizione di tutti. E Charlie, intanto? Sta sempre peggio: non solo, ma nelle ultime settimane risonanza magnetica ed altri esami ancora più sofisticati dimostrano che nel cervello ci sono danni irreversibili, che nessun trattamento per quanto sperimentale potrà mai modificare. In queste condizioni, tenere quel povero corpicino attaccato ad una macchina che respira per lui vuol dire solo prolungare l’agonia. Chi volesse sostenere che nel cervello di Charlie poteva esserci qualcosa di vitale dovrebbe ammettere che quel piccolo soffriva (e vi assicuro che dopo nove mesi di rianimazione le sofferenze possono essere atroci). Se invece nel cervello di Charlie di neuroni non ce n’erano più, andare avanti non avrebbe proprio avuto senso. Fare il medico è rianimare, certo, ma anche saper sospendere le cure quando sono inutili, fa parte delle nostre responsabilità a tutela di chi non ha più speranza. E quelli di Great Ormond Street non erano soli, hanno sentito colleghi bravissimi a Barcellona e tutti gli esperti che ci sono al mondo nel campo dei disordini mitocondriali.
E i giudici? La sentenza di quello dell'Alta Corte di Inghilterra e Galles che invita i medici “with the heaviest of hearts” (con il pianto nel cuore, diremmo noi) a sospendere i trattamenti è fatta di 30 pagine appassionate, piene di cultura medica e giuridica, ma anche di compassione e buon senso, insomma un riferimento imprescindibile per chi volesse approfondire questa materia. "Charlie morirà sapendo di essere stato amato da migliaia di persone" scrivono i genitori. È una frase bellissima.
C’è di più: Connie e Chris useranno i soldi che hanno raccolto perché si faccia più ricerca su queste malattie, così che un giorno altri bambini con danni da deplezione mitocondriale possano vivere un po' più a lungo e forse anche guarire.
Giuseppe Remuzzi - Direttore Istituto Mario Negri
Daniela Abbatantuono - Responsabile Comunicazione