Medici di base come colonna portante del sistema, cure a domicilio, case di comunità e ospedali degli infermieri per svuotare i Pronto soccorso. La proposta di Giuseppe Remuzzi, Direttore dell’Istituto Mario Negri, per riorganizzare il Sistema Sanitario Nazionale. Perché la garanzia di poter essere curati quando ci si ammala è l’essenza di ogni società giusta.
“Molti dei nostri concittadini non sono in buona salute e non hanno abbastanza soldi per curarsi, è venuto il momento di aiutarli. Medici ne abbiamo, ma non sempre dove servono. E non è sufficiente costruire infrastrutture, le dobbiamo distribuire in modo uniforme nel Paese e farci carico degli operatori e dei servizi. Per i tumori abbiamo fatto molto, ma siamo lontani dall’aver risolto il problema, abbiamo fatto troppo poco per le malattie mentali e troppo poco per incentivare i giovani a essere medici e infermieri. E troppo poco per la ricerca biomedica”. Con questo messaggio, letto di fronte al Congresso degli Stati Uniti il 19 novembre 1945, Harry Truman avrebbe voluto che il suo Paese si dotasse di un servizio sanitario, e che fosse per tutti e per tutte le malattie: un grande progetto governativo (come stavano facendo proprio in quegli anni nel Regno Unito e come avremmo fatto noi molto dopo col Servizio Sanitario Nazionale). Il congresso è contrario alla proposta di Truman. Passano 35 anni e con un editoriale pubblicato sul New England Journal of Medicine, l’allora direttore Arnold (“Bud”) Relman critica aspramente “la nuova industria della salute” che, fra ospedali privati, residenze per anziani e centri di dialisi, fatturava già allora fra i 30 e i 40 miliardi di dollari all’anno. Cosa c’è di male? “Moltissimo - secondo Relman - con tanti soldi così si arriva a influenzare la politica sanitaria della Nazione, non solo, ma l’industria della salute risponde in primo luogo alle esigenze degli azionisti, i bisogni degli ammalati vengono dopo”. Negli anni 80, Bud Relman era il dottore più influente degli Stati Uniti, non l’hanno ascoltato. Come è finita? Vediamo: “in America nessun settore - di quelli della salute - è immune dalla smodata ricerca del profitto: non le compagnie farmaceutiche, non le assicurazioni, non gli ospedali, non i medici” scrive Donald Berwick - docente di medicina a Boston - sempre sul New England. Gli fa eco David Blumenthal (31 ottobre 2024): “gli Stati Uniti hanno fallito, si sono sottratti alla responsabilità fondamentale di ogni Nazione: proteggere i propri cittadini dal soffrire e morire “needless”, senza una ragione”. Mentre Blumenthal - che è professore a Harvard - scrive così, al nostro Ospedale arriva un neonato in condizioni disperate con una polmonite interstiziale bilaterale da enterovirus: ha bisogno di supporto respiratorio e tanto d’altro ma le probabilità di farcela sono poche, pochissime; medici e infermieri fanno il possibile e l’impossibile, nessuno pensa ad altro che alla vita di quel piccolino. Dopo qualche giorno Luca (non è il suo vero nome) mostra piccoli segni di ripresa per poi migliorare giorno dopo giorno; dalla rianimazione alla pediatria e poi a casa, guarito. La nostra sanità pubblica è anche così. Ma “ce la possiamo permettere?”.
E se ci chiedessimo invece: “ci possiamo permettere di non averla la sanità pubblica?”. Che futuro può avere un paese che non consente ai suoi cittadini di accedere ai servizi essenziali? Davvero vogliamo che le persone soffrano e muoiano anche da noi quando lo si potrebbe evitare? Qualcuno penserà che non ci sono abbastanza soldi, ma non è con i soldi che si risolvono i problemi e le difficoltà del nostro Servizio Sanitario (che, mai come ora, tutti ma proprio tutti tocchiamo con mano). È una questione culturale: poter essere curati quando ci si ammala rappresenta l’essenza di una società giusta ed è il fondamento del sentirsi liberi. Certo, farsi carico della salute dei cittadini comporta una grande responsabilità, che non può essere delegata a organizzazioni private, costruite attorno a numeri ed efficienza; dovrebbe essere un “servizio” appunto, basato su attenzione, dedizione, desiderio di alleviare il dolore degli altri e qualità.
“Ma ci sono le assicurazioni: fatevene una e siete a posto”. Davvero? “Milioni di ammalati si sentono abbandonati dalle assicurazioni - scrive Massimo Gaggi a proposito degli Stati Uniti - e un malato cronico non è al sicuro nemmeno se benestante e paga migliaia di dollari per la sua polizza”. Del resto, un’indagine recente fatta da Kaiser Foundation (un’agenzia indipendente che si occupa di politiche della salute) rivela che la maggior parte degli americani super-assicurati ha difficoltà a ottenere quello di cui ha bisogno per curarsi e non trova un accordo con l’assicurazione, al punto di dover ricorrere a dei consulenti per orientarsi nel labirinto delle clausole. E quelli che non se lo possono permettere?
Sarebbe sconsiderato, visto che sappiamo come andrebbe a finire, se decidessimo anche noi di imboccare quella strada. Cosa fare allora? Se siamo convinti che un sistema di salute non può essere concepito per arricchire qualcuno a scapito di chi non può pagare, il rimedio non è nemmeno tanto complicato: basta tener fede all’impegno preso con l’Europa nell’ ambito del PNRR, tanto per cominciare, per poi arrivare a qualcosa di più strutturale. Un sogno? Mica tanto, ho provato a tratteggiare l’essenziale in un grafico.
Si parte dal territorio col Distretto a coordinare tutte le attività, che si fondano sul medico di famiglia, colonna portante del sistema, che proprio per questo deve dipendere dal Servizio Sanitario Nazionale; farà prima di tutto prevenzione e quando questa non basta, potrà contare sulla disponibilità illimitata dei letti di casa.
E chi non può essere curato a casa? Per loro c’è la “casa della comunità” che vedrà medici di medicina generale, specialisti, infermieri, assistenti sociali e personale amministrativo lavorare insieme per lo stesso obiettivo; secondo la missione 6 del PNRR, entro il 2026 le case della comunità in Italia dovranno essere 1350.
Poi, sempre sul territorio, ci saranno ospedali di comunità - i piccoli ospedali di oggi - che diventeranno “ospedali degli infermieri”; si faranno carico di tutto quello che gli infermieri fanno egregiamente già oggi (dalle medicazioni ai prelievi di sangue, alle infusioni, alla chemioterapia, alla diagnostica che sarà integrata con sistemi di intelligenza artificiale già largamente disponibili). Se a un certo Pronto Soccorso oggi arrivano, poniamo, 200 persone al giorno, quando ci sarà una buona assistenza sul territorio, quelle persone saranno 40: e allora niente più ore e ore di attesa, nessuno che perde la pazienza, nessuno che aggredisce nessuno. I reparti dell’ospedale di quel Pronto Soccorso avranno sempre i posti che servono per accogliere gli ammalati gravi, un po’ perché dal Pronto Soccorso le richieste di ricovero diminuiranno e poi perché si potrà contare ancora una volta sull’ospedale degli infermieri dove ricoverare chi ha superato la fase più difficile della sua malattia ma non può ancora essere assistito a casa.
Il lavoro di medici e infermieri va remunerato adeguatamente, si capisce, e qui ci viene in aiuto un editoriale del Lancet: “Il servizio sanitario (quello inglese, ndr) è malato ma si può curare”. Loro scrivono fra l’altro: “basta col finanziare un pochino ogni criticità che si presenta, serve una visione globale se no quei soldi si buttano: una volta deciso che servizio vogliamo si deciderà come sostenerlo”. E per il nostro cosa potrebbe servire? Quaranta miliardi di euro - solo per portarci al livello di Francia e Germania - ma non è impossibile se pensiamo che ogni anno sprechiamo quaranta miliardi di euro fra farmaci e interventi inutili. Per farlo servono azioni concrete e senso civico da parte di tutti: da chi ha posizioni di responsabilità, ai medici, ai cittadini. Howard Brody che è stato professore di medicina nel Texas ha scritto: “è ora di passare dall’etica dei tagli all’etica di evitare gli sprechi”. Non è difficile se lo si considera un imperativo morale; insomma per avere un vero a Servizio Sanitario Nazionale bisogna volerlo, lo devono volere prima di tutto i cittadini e chi ci governa deve sentirlo come una assoluta priorità, dopo i soldi si trovano.
E adesso immaginiamo che qualcuno condivida questa impostazione e che i soldi si trovino davvero, cos’altro serve perché possa realizzarsi? Questo è l’aspetto più delicato: il governo del sistema. Direzioni di distretto, assessorati regionali, ministeri, dovrebbero per una volta lavorare insieme con due obiettivi prioritari: migliorare il benessere dei cittadini e ridurre le diseguaglianze. Perché succeda davvero però, Governo e Parlamento ci devono credere, lasciar perdere gli schieramenti e lavorare insieme, nello spirito della Costituzione. Vuol dire che non ci sarà più spazio per la sanità privata? Niente affatto, il privato-privato (in strutture private) va benissimo; vuol dire che chiunque, pagando di tasca sua, può avere tutto quello che vuole dove vuole. Non solo ma le organizzazioni private dovrebbero venire in aiuto al pubblico dove il pubblico è carente, a condizione però che ci sia una regia: ospedali pubblici e privati che a pochi chilometri di distanza fanno le stesse cose non ce ne dovrebbero essere più e nemmeno ammalati che per avere una prestazione in tempo utile devono rivolgersi al privato.
Intanto in quell’America che ottant’anni fa aveva snobbato la proposta di Truman ci si comincia a chiedere se non sia arrivato il momento di avere un servizio di salute per tutti e che sia pubblico “per riuscirci davvero si dovranno superare grandi difficoltà, ma le ragioni per farlo sono gigantesche” scrive sul New England Journal of Medicine, Margaret (“Peggy”) Hamburg, che è stata presidente dell’American Association for the Advancement of Science, e aggiunge: “se non ora quando?”.
Giuseppe Remuzzi | Direttore Istituto Mario Negri