L’omeopatia ha avuto fortune incostanti nei suoi due secoli di storia. Alti e bassi si sono alternati in contrapposizione alla minore o maggiore fiducia dell’opinione pubblica nella medicina tradizionale. L’omeopatia si è adattata, cambiando il modo di proporsi secondo le obiezioni ricevute e le convenienze del momento.
Le alte dosi originariamente usate nei preparati omeopatici procuravano più fastidi che guarigioni? Ecco le diluizioni estreme.
Le diluizioni lasciavano nient’altro che acqua? Ecco l’idea surreale della memoria dell’acqua.
Questa ipotesi stravagante e un’esperienza clinica coronata di successi non reggevano alle prove scientifiche? Ecco l’ipotesi di un effetto placebo.
L’omeopatia come “medicina alternativa” a quella tradizionale era messa al bando come un rischio per la salute pubblica? Ecco l’idea di una “medicina complementare” che accompagna quella tradizionale, senza sostituirla.
Di seguito, esaminiamo come tutto questo si è sviluppato e quali conseguenze ha avuto:
L’idea dell’omeopatia risale ai primi anni dell’Ottocento e alla persona di Samuel Hahnemann. Medico tedesco disilluso dall’impotenza della medicina del tempo, che si affida principalmente a salassi, clisteri, purghe e sanguisughe, Hahnemann abbandona precocemente la pratica medica per dedicarsi alla traduzione di testi di medicina. Attraverso questi, viene attratto dalle proprietà della china, allora utilizzata per il trattamento della malaria. La prova su di sé e su amici e parenti. Osserva che la china genera in lui e in altri soggetti sani la febbre, proprio come la malaria, che si presume la china curi.
A partire da questa osservazione Hahnemann ipotizza che, in funzione della sua dose, una sostanza sia capace di eliminare nell’individuo malato sintomi analoghi a quelli che provoca in un individuo sano.
Nasce così l’omeopatia, dal greco òmoios, simile, e pàthos, sofferenza, dolore; in sostanza, “lo stesso male”. E’ la cosiddetta legge dei simili, che si rifà all’antico concetto di Paracelso, secondo cui “similia similibus curantur” ovvero “i simili si curano con i simili”. Così concepita, l’omeopatia si contrappone all’allopatia (dal greco àllos e pàthos, cioè “altro [rispetto al] male” ovvero rimedio), che si identifica con la medicina tradizionale e, al contrario dell’omeopatia, si propone di curare le malattie con rimedi che si oppongono alla loro natura: ad esempio, un antibiotico per curare l’infezione, un vasodilatatore per curare l’ipertensione arteriosa, un ipoglicemizzante per curare il diabete, etc.
Hahnemann persegue la sua ipotesi verificando su di sé e sui soliti amici e parenti l’effetto di varie altre sostanze. Con le stesse sostanze passa poi a curare i malati che presentano sintomi analoghi a quelli indotti da quelle sostanze nei soggetti sani. I tentativi, però, non sono soddisfacenti: nei pazienti quelle sostanze spesso peggiorano la sintomatologia legata alla loro patologia di base. Hahnemann, allora, prova a ridurre le dosi delle sostanze somministrate. Un evento fortuito sembra dargli ragione. Durante un’epidemia di colera, scoppiata in Europa nel 1831, preparati diluiti di alcune sostanze selezionate da Hahnemann si dimostrano più efficaci degli altri interventi allora praticati. In realtà, sono questi, e in particolare i salassi, ad avere un effetto nocivo su organismi già indeboliti dal colera.
Ma Hahnemann, concentrandosi sul dito e perdendo di vista la luna, è sempre più convinto che siano le diluizioni delle sostanze da lui usate a potenziarnel ’effetto. Da qui nasce il concetto di “potenza” con cui gli omeopati definiscono il grado di diluizione del preparato iniziale.
Le diluizioni omeopatiche sono uno degli aspetti più controversi di questi prodotti. Stando alle leggi della chimica, infatti, alle diluizioni cui sono sottoposti tali prodotti, nel preparato finale al massimo vi possono essere solo tracce della sostanza iniziale, spesso non una sola molecola di questa. I prodotti omeopatici vengono diluiti “n” volte in proporzione di 1 a 100 o di 1 a 10. Le soluzioni così ottenute vengono a loro volta diluite 1 a100 o 1 a 10 per un numero variabile di passaggi: sono queste le potenze, chiamate rispettivamente centesimali (C) o decimali (D). Per dare meglio l’idea, è come se mettessimo un paio di microlitri (la milionesima frazione del litro) in una piscina olimpionica! E questo succede con poche diluizioni decimali. Che dire di potenze superiori, soprattutto se centesimali? Quindi, perché mai qualcosa che non c’è dovrebbe produrre un qualsiasi effetto? Il segreto, secondo Hahnemann, consiste nella “dinamizzazione”, in altre parole nient’altroche l’agitazione vigorosa delle provette tra una diluizione e l’altra. Tale pratica consentirebbe di fissare nel solvente tracce immateriali della sostanza inizialmente disciolta: nasce, quindi, il concetto della “memoria dell’acqua”.
Perché mai un preparato che contiene solo tracce del prodotto iniziale, di cui, peraltro, l’acqua non può conservare memoria , dovrebbe procurare un beneficio? Seguono anni di intense ricerche da parte della medicina ufficiale. Pur adottando il rigoroso metodo degli studi clinici controllati e delle metanalisi di questi, la comunità scientifica internazionale non riesce a documentare alcun vantaggio dell’omeopatia. Nel 2005, un editoriale dell’autorevole rivista medica The Lancet esorta la comunità scientifica ad abbandonare un dibattito, durato ormai troppo a lungo, e i medici ad ammettere francamente di fronte ai loro pazienti che, se la medicina tradizionale presenta molti limiti, non è certo l’omeopatia che può superarli.
“L’omeopatia, infatti”, conclude il Lancet “non dà benefici”.
L’analisi prende in considerazione oltre cento studi clinici che hanno confrontato allopatia con il placebo, e altrettanti che hanno confrontato omeopatia con il placebo, e conclude che, dagli studi dotati di buona qualità metodologica, non emerge alcun effetto significativo dell’omeopatia. Inoltre, mentre l’allopatia, e cioè la medicina tradizionale, è sostenuta da evidenze consolidate, l’omeopatia al massimo può rivendicare un effetto pari a quello del placebo.
Insieme alle cinque metanalisi che portano The Lancet a stabilire la fine dell’omeopatia, anche le revisioni sistematiche fatte periodicamente dalla Cochrane Collaboration (iniziativa internazionale no- profit nata negli anni Novanta con lo scopo di far emergere le evidenze in medicina) documentano ulteriormente l’inefficacia dell’omeopatia in varie aree della medicina (i.e. asma cronico, osteoartrite, ADHD, demenza, induzione del parto, riduzione degli effetti avversi della chemioterapia e trattamento dell'influenza con il tanto celebrato Oscillococcinum).
Vittorio Bertelè - Centro Politiche Regolatorie in Sanità
Editing Raffaella Gatta - Content Manager