Che la salute sia undiritto per tutti i cittadini lo dice la Costituzione. All’articolo 32 silegge: “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo einteresse della collettività, e garantisce cure agli indigenti”.
Questa enunciazione però non si è tradotta in assistenza sanitaria per tutti, per lo meno fino al 1978 quando fu istituito il Servizio Sanitario Nazionale (ssn), riformato poi nel 1992-1993. Prima c’erano le mutue, pubbliche – come l’Istituto Nazionale Assistenza Dipendenti Enti Locali (inadel) e l’Istituto Nazionale per l’Assicurazione contro le Malattie (inam) – e private – aziendali o di categoria professionale. I livelli di assistenza assicurati dalle diverse mutue però erano davvero disomogenei, e così non si ottemperava certo all’enunciazione costituzionale dell’eguaglianza nell’accesso alle cure.
La legge del 1978 si basava invece su tre principi fondamentali:
Questi principi corrispondono pienamente alla convinzione che la salute è un diritto e non un bene da lasciare alle dinamiche del libero mercato. Sono una misura della civiltà che in più occasioni nel corso della storia ci ha qualificato come un grande paese. Che la società moderna debba avere un Servizio Sanitario deriva dal concetto di welfare state che è andato affermandosi in Europa nel secondo dopoguerra. Il primo modello è stato quello inglese ma è curioso come già nel Settecento Jacques Tenon, un grande chirurgo di Parigi, affermasse che la protezione della salute di una popolazione spetta al re (questa interessante annotazione la dobbiamo a Marco Geddes da Filicaia: La salute sostenibile. Perché possiamo permetterci un Servizio Sanitario equo ed efficace).
Col Servizio Sanitario Nazionale l’Italia si è impegnata a dare a tutti la possibilità di accedere alle cure, indipendentemente dalle condizioni economiche e dal ceto sociale e questa è la cosa più preziosa che abbiamo, che non costa nemmeno tanto: secondo i dati pubblicati nel rapporto annuale 2017 dell’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (ocse), spendiamo in media per curarci 3.391 dollari all’anno, meno della Francia che ne spende quasi 4.600 edella Germania che arriva a 5.500, per non parlare degli Stati Uniti che spendono circa 9.400 dollari. Dobbiamo perciò fare di tutto per conservarlo il nostro Servizio Sanitario, e difenderlo correggendolo eventualmente là dove è necessario, migliorandolo ancora, ma senza venire meno ai suoi principi costitutivi.
Ma i costi della sanità aumentano di anno in anno, in Italia come in tutti i paesi industrializzati: dipende dall’invecchiamento della popolazione e dalla scoperta di nuoveterapie e strumenti di diagnosi che spesso vengono presentati come indispensabili alle cure e necessari per venire incontro alle esigenze degli ammalati. E allora?
Dal momento che lo Stato (in Italia come in tutti gli altri paesi industrializzati) incontra difficoltà crescenti nel fare fronte a un fabbisogno in costante aumento, agenzie internazionali, come l’Organizzazione Mondiale del Commercio, spingono per privatizzare le strutture che forniscono servizi sanitari e auspicano che il finanziamento per la sanità si possa incrementare confondi privati. Questa impostazione prevede che i cittadini paghino una parte crescente delle prestazioni mediche (onere che si aggiunge alla tassazione).
Ma davvero si dovrà ricorrere a fondi integrativi o alle assicurazioni perché tutti possano avere le cure necessarie?
Se uno mi chiedesse se tra trent’anni avremo ancora un Servizio Sanitario Nazionale risponderei... “dipende”. Un po’ perché potremmo averlo solo se si realizzassero certe condizioni che provo ad elencare (nel farlo so benissimo di andare contro l’interesse di molti, ma sono anche convinto che se ci vogliamo provare davvero non ci siano altre strade).
Continueremo ad averlo il Servizio Sanitario Nazionale ammesso che:
Le risorse per fare tutto questo si potranno liberare da due azioni fondamentali:
chiudere i piccoli ospedali (tutti, non solo qualcuno);
accreditare il privato solo per quello per cui il pubblico è carente.
Queste due operazioni, se fatte davvero su tutto il territorio nazionale, saranno più che sufficienti a coprire le spese necessarie per riorganizzare l’intero Servizio Sanitario, a partire dall’adeguamento degli organici (medici e infermieri, ma anche tecnici, informatici e ingegneri), dalla messa in sicurezza e dall’ammodernamento di edifici, arredamenti e apparecchiature, dall’acquisizione di tecnologia di avanguardia in tutti i settori e riservando una speciale attenzione agli aspetti organizzativi e gestionali. Assumere giovani medici e infermieri bravi e competenti dedicati soprattutto ai servizi sul territorio è l’unico modo per venire incontro alle attuali carenze, che nei prossimi anni saranno drammatiche.
Così tra l’altro si riduce la disoccupazione, si aumentano i redditi delle famiglie e si incentivano i consumi.
C’è un documento molto importante preparato da Hollande e Zuma, TheHealth Workforce: A Good Investment, che fa vedere come l’investimento in salute è quello che dà un maggiore ritorno non solo sul benessere della popolazione ma anche sulla crescita economica. Per il 2030, secondo questo documento, creato sotto l’egida dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, avremo bisogno di 40 milioni di persone in più da impiegare nel settore della salute. Dovremo occuparci della loro formazione edella loro educazione ai compiti importantissimi che saranno chiamati asvolgere soprattutto in rapporto all’invecchiamento della popolazione e all’aumentodelle malattie croniche. Purtroppo la maggior parte di questi posti di lavoro saranno per i paesi ricchi anche perché i leader dei paesi emergenti vedono chi lavora in sanità come un costo anziché un investimento per l’economia e la crescita globale. Vale la pena però di ricordareche ogni persona impiegata in sanità genera possibilità di lavoro per almeno altre due persone nel campo dell’amministrazione, delle assicurazioni, dell’informatica, dei trasporti e dei servizi.
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Giuseppe Remuzzi, tratto da "La salute (non) è in vendita"