Le nuove tecniche chirurgiche (meno invasive), i rischi e le possibili complicazioni dell'intervento chirurgico e il decorso post operatorio. Tutto sulla nefrectomia.
La nefrectomia è un intervento chirurgico che prevede l’asportazione parziale o completa di uno o entrambi i reni. Prende il nome di nefrectomia monolaterale quando è riservata a un solo rene, mentre viene definita bilaterale quando interessa entrambi i reni.
La nefrectomia può essere eseguita con tre tecniche chirurgiche. Tutte richiedono anestesia generale e comprendono:
Le condizioni che richiedono l’intervento di nefrectomia includono:
La nefrectomia può essere eseguita con tre diverse modalità:
In queste condizioni è indicata la nefrectomia semplice (ad esempio, difetti congeniti, infezioni, traumi).
La terapia del carcinoma renale (tumore maligno) prevede l’intervento chirurgico (nefrectomia radicale o parziale) come unico trattamento potenzialmente curativo, nei casi di tumore renale localizzato o localmente avanzato.
Storicamente, la terapia chirurgica del tumore prevedeva il ricorso alla nefrectomia radicale, indipendentemente dalle dimensioni e dallo stadio della neoplasia. Tuttavia, negli ultimi decenni, l’impiego crescente degli esami di diagnostica per immagini (ecografia, tomografia computerizzata e risonanza magnetica) ha comportato un aumento della scoperta fortuita di forme tumorali di piccole dimensioni e localizzate al rene, che possono beneficiare della nefrectomia parziale (chiamata anche nefrectomia a risparmio del tessuto renale). Questo tipo di intervento chirurgico, che prevede l’asportazione del tumore, preservando il restante tessuto renale sano, un tempo era riservato ai casi in cui una nefrectomia radicale avrebbe necessariamente condotto alla dialisi (ad esempio, pazienti con un solo rene, tumori in entrambi i reni, funzionalità insufficiente dell’altro rene non interessato dal tumore). Attualmente la nefrectomia parziale, quando tecnicamente fattibile, è la tecnica di riferimento per l’asportazione chirurgica di tumori confinati al rene di dimensioni uguali o inferiori a 7 cm. Infatti, sia per tumori di dimensioni uguali o inferiori a 4 cm che per quelli compresi tra 4 e 7 cm, la nefrectomia parziale ha fornito risultati equivalenti in termini di sopravvivenza cancro-specifica rispetto alla nefrectomia radicale, offrendo al contempo benefici riconducibili alla preservazione della funzione renale.
La nefrectomia radicale è invece la tecnica di riferimento in caso di tumori renali localmente avanzati (ovvero tumori che non sono né localizzati né metastatici).
Nel carcinoma renale metastatico l’asportazione del rene compromesso dal tumore (nefrectomia di citoriduzione) può essere considerata nei pazienti in buone condizioni generali. In questo caso l’obiettivo terapeutico è, generalmente, palliativo (volto ad alleviare i sintomi, migliorando quindi la qualità della vita) e deve essere associato ad un trattamento farmacologico per via sistemica (come l’immunoterapia).
In questo caso viene eseguita la nefrectomia semplice.
Sia la nefrectomia semplice che quella radicale e parziale possono essere eseguite con chirurgia a cielo aperto, laparoscopica pura o robot-assistita.
Generalmente sono indicate la profilassi antibiotica (per via endovenosa, prima dell’intervento) per ridurre il rischio di infezioni del sito chirurgico o di sepsi (infezione generalizzata) e la profilassi degli eventi tromboembolici che prevede, oltre all’uso di calze compressive, la somministrazione di farmaci per via sottocutanea. La terapia antitrombotica viene iniziata nelle ore precedenti, durante o nelle ore successive all’intervento chirurgico, in base al protocollo di profilassi seguito dal centro e al rischio di sanguinamento del paziente. Infatti, se il rischio di sanguinamento è alto, è preferibile posticipare la somministrazione dei farmaci antitrombotici, finché il rischio non è diminuito. La durata del trattamento antitrombotico varia a seconda dei protocolli di profilassi.
I primi giorni del decorso post-operatorio sono generalmente caratterizzati da dolori che richiedono la somministrazione di farmaci analgesici per via endovenosa.
Nei primi due giorni dall’intervento vengono eseguiti esami del sangue per documentare una eventuale eccessiva perdita di globuli rossi e intervenire, se necessario, con trasfusioni o infusione di ferro per via endovenosa.
Il catetere vescicale, che è posizionato all’inizio dell’intervento per monitorare la quantità di urina prodotta, viene in genere rimosso nella prima o seconda giornata post-operatoria, ma questo periodo può variare a seconda delle condizioni cliniche del paziente.
La natura e la durata delle cure post-operatorie sono molto migliorate grazie alla tecnica laparoscopica dell’intervento chirurgico che, rispetto alla via convenzionale a cielo aperto, si è dimostrata altrettanto sicura e ha prodotto risultati equivalenti in termini di rimozione del tumore o di successo del successivo trapianto di rene nel ricevente, offrendo al contempo diversi vantaggi, quali:
La nefrectomia viene considerata un intervento di chirurgia maggiore; pertanto, può comportare alcuni rischi a breve termine sia che venga eseguita per l’asportazione di un tumore renale che a scopo di donazione dell’organo. I rischi nel lungo periodo richiedono invece considerazioni diverse in base ai motivi che sottendono la necessità dell’intervento chirurgico.
Sia la nefrectomia parziale che quella radicale comportano un rischio, seppure minimo (inferiore all’1% delle nefrectomie), di mortalità nei primi giorni dopo l’intervento. L’incidenza di complicanze peri-operatorie è leggermente più elevata con la nefrectomia parziale rispetto alla nefrectomia radicale, a causa della maggiore complessità dell’intervento chirurgico. Le più comuni con questo approccio di tipo conservativo includono sanguinamento, con emorragie severe (in circa il 3% dei pazienti), e sviluppo di fistole urinarie. Poiché la nefrectomia parziale comporta una minore perdita di tessuto renale con funzione normale rispetto a quella radicale (in cui tutto il tessuto renale viene eliminato), essa si associa a un minore rischio di sviluppo di un danno renale cronico nel tempo.
Sebbene la funzione renale sia meglio preservata con la nefrectomia parziale rispetto a quella radicale, anche nel primo caso alcuni pazienti possono andare incontro a una riduzione della funzione renale dopo l’intervento chirurgico. Questo processo è influenzato dalla qualità del tessuto renale prima dell’operazione (tutto indenne e/o con piccole aree di danno) e dalla quantità di tessuto renale residuo dopo l’operazione.
I rischi a breve termine sono principalmente di tipo peri-operatorio. Il tasso di mortalità entro i 90 giorni dalla donazione si aggira attorno allo 0.03% (cioè 3 casi ogni 10,000 donazioni). Le complicanze chirurgiche più comuni includono sanguinamento, infezioni (della ferita chirurgica, delle vie urinarie, polmonari), e pneumotorace (patologia caratterizzata dalla presenza di aria tra i due strati della pleura - la sottile membrana che riveste i polmoni -, con conseguente collasso parziale o completo del polmone). Le meno comuni comprendono dolore in sede di incisione, riapertura della ferita, occlusione intestinale e sviluppo di ernie. La frequenza di queste complicanze è molto variabile, e dipende dall’epoca in cui sono stati eseguiti gli studi e riportate le casistiche relative (ad esempio, era più elevata nei periodi iniziali, dopo la messa a punto della tecnica chirurgica), dalla presenza di fattori di rischio dei donatori (quali obesità, abitudine al fumo), ma anche dall’attività dei centri. Il rischio di complicanze chirurgiche tende infatti a essere più elevato nei centri con un minore volume di attività.
Per quanto riguarda i rischi a lungo termine, esistono dati discordanti circa l’impatto della nefrectomia per donazione di rene sulla pressione arteriosa. Alcuni, ma non tutti, gli studi sull’argomento hanno riportato un rischio più elevato di sviluppare ipertensione arteriosa nei donatori rispetto a soggetti sani della popolazione generale e a parità di età e sesso. Tuttavia, queste osservazioni potrebbero essere semplicemente riconducibili a un monitoraggio più frequente della pressione arteriosa nei donatori di rene rispetto alla popolazione generale.
Diversi studi hanno riportato un piccolo aumento dell’escrezione di proteine nelle urine, che tende ad aumentare con l’età, dopo la nefrectomia per donazione. Questo effetto è probabilmente riconducibile all’aumento della capacità filtrante del rene rimanente, che passa dal 50% al 70% nei giorni successivi alla donazione, per poi stabilizzarsi negli anni successivi. Tali meccanismi di adattamento rendono conto del basso rischio che i donatori incorrono di sviluppare insufficienza cronica renale terminale (e la necessità di dialisi o trapianto), che è stato stimato attorno allo 0.3% (cioè 3 casi ogni 1,000 donazioni) dopo 15 anni dalla donazione. Anche i dati sull’aspettativa di vita sono rassicuranti: nei donatori di rene la sopravvivenza è paragonabile, se non addirittura più alta, a quella di soggetti sani nella popolazione generale e a parità di età e sesso.
Dopo la donazione di un rene, non sono necessarie limitazioni concernenti l’attività lavorativa o fisica, la vita di relazione o di coppia. I dati disponibili indicano che la qualità di vita dei donatori è paragonabile a quella della popolazione generale.
Norberto Perico | Unità Operativa Complessa Malattie Renali