Nell’ambito dell’emigrazione italiana, sin dalle sue origini nella metà dell’800, quella meridionale dal Sud al Nord si è caratterizzata per la continuità temporale e per essere diventata di massa a partire dal secondo dopoguerra sino agli anni ’80.
Nell’ambito del fenomeno migratorio, quello sanitario rappresenta un problema di salute pubblica, in particolare per alcuni bisogni di cura o per alcune popolazioni, come quella pediatrica. Nell’immediato dopoguerra in un Paese stremato, con un sistema sanitario a pezzi e la salute degli italiani senza tutele e garanzie, la migrazione dal Sud dove anche la ricostruzione delle infrastrutture è stata lenta e inefficace ha rappresentato un fenomeno dell’emergenza.
“Oggi a distanza di decenni questa fuga per la cura rappresenta un determinante di disuguaglianza”, afferma Maurizio Bonati.
Il diritto fondamentale alla salute sancito dall’articolo 32 della Costituzione del 1947 con il perdurare della migrazione sanitaria (per forma, caratteristiche e costi) rimane troppo spesso non garantito.
La Riforma Sanitaria del 1978 e le successive modifiche, e l’introduzione dei LEA (Livelli Essenziali di Assistenza) non sono ancora riusciti a colmare la disparità di offerta assistenziale (quantitativa e qualitativa) tra le regioni del Sud e quelle del Centro-Nord con la conseguente cronicizzazione della migrazione sanitaria interregionale.
La mobilità interregionale rappresenta la tendenza della popolazione ad usufruire delle prestazioni in una regione diversa da quella di residenza. Più in particolare con mobilità passiva (o emigrazione, o indice di fuga) si definisce il numero di pazienti che vanno a farsi curare in una regione diversa da quella di residenza.
Un’elevata emigrazione è quindi indice di uno standard assistenziale insufficiente.
Vi sono elementi di confondimento quali la struttura olografica (è inevitabile l’emigrazione di pazienti da un distretto molto decentrato a strutture di regioni confinanti) o le caratteristiche regionali (è inevitabile che regioni piccole non possano fornire tutte le tipologie di prestazioni). La mobilità può quindi essere di prossimità, per la quale l’utente sceglie la struttura sanitaria più vicina, anche se dislocata in una regione in cui non risiede; per usufruire di prestazioni di complessità e specificità elevate erogate da poche strutture qualificate; di casualità, che si associa ai movimenti temporanei della popolazione, sia di lungo periodo (lavoro o studio), che di breve e brevissimo periodo (vacanza); per una carenza d’offerta sul proprio territorio, sia quantitativa sia qualitativa, di prestazioni sanitarie. È quest’ultimo tipo di mobilità sanitaria la fonte di disuguaglianze.
Complessivamente nel 2020 sono state erogate 6.769.744 dimissioni per acuti in regime ordinario e diurno, il totale dei ricoveri effettuati fuori regione è stato di 516.875 con un tasso di ospedalizzazione di 11,4 per 100 residenti e una mobilità nazionale passiva pari a 7,6%, con il minimo in Sardegna (4,5%) per ragioni olografiche e il massimo in Molise (28,1%) e Basilicata (25%).
Secondo l'ultima analisi sulla migrazione sanitaria pediatrica in Italia, effettuata da Rita Campi, statistica del Dipartimento di Salute Pubblica, il numero totale dei ricoveri erogati prima del compimento della maggiore età (0-17anni) è stato di 854.272, con un tasso di ospedalizzazione pari a 9,1 per 100 residenti; un indice di fuga pari all’8,7%: dal 3,4% del Lazio al 43,4% del Molise, il 30,8% della Basilicata, il 26,8% dell’Umbria e il 23,6% della Calabria. Un terzo dei bambini e adolescenti si mette in viaggio dal Sud per ricevere cure per disturbi mentali (il 10% dei casi) o neurologici, della nutrizione o del metabolismo nei centri specialistici convergendo principalmente a Roma, Genova e Firenze, sedi di Istituti di Ricovero e Cura a Carattere Scientifico (IRCCS) pediatrici.
Per limitare la migrazione sanitaria dei giovani pazienti e delle rispettive famiglie è quindi necessaria una visione sistemica e un intervento multimodale con il potenziamento strutturale e qualitativo dei centri esistenti, il rientro regionale di competenze migrate al Nord o all’estero, l’intensificazione della relazione/comunicazione tra gli operatori per una condivisione dei percorsi di cura specie se complessi, un’appropriata e continua informazione sanitaria rivolta alla popolazione.
Curarsi al Sud si può se l’organizzazione dei servizi orienta correttamente la domanda di salute e costituisce una rete per un’appropriata risposta. La rete per complessità e rarità di specifici bisogni sanitari può anche contemplare centri extra-regionali o distanti dalla residenza del paziente, come è il caso di patologie inguaribili, complesse che necessitano anche di una preparazione e accompagnamento anche per il fine vita.
Purtroppo, il perseverante sbilanciamento nella distribuzione territoriale delle strutture (e delle risorse) con la mancanza di IRCCS a vocazione pediatrica polispecialistica ubicati al di sotto delle coordinate laziali costringerà ancora troppi minori, e le rispettive famiglie, a migrare per essere curati.
Senza polo pediatrico 6mila bimbi all'anno fuori dalla Sicilia
Maurizio Bonati - Senior Advisor - Dipartimento di Epidemiologia medica
Editing Raffaella Gatta