Immaginate, lettori uomini, di entrare nel vostro negozio di vestiti preferito e girando tra gli scaffali di notare che gli abiti sono di taglia, misura, tessuti non pensati per voi: sono adatti a una statura e corporatura più piccola e tarati su fattezze femminili. Insomma, qualcosa vi andrà pure bene ma non sarà semplice trovare qualcosa fatta proprio per voi. Alle donne accade qualcosa di molto simile con i farmaci e la medicina in generale.
Negli ultimi anni nel mondo della ricerca è cresciuto l’interesse verso lo studio delle differenze di sesso, definite dalle caratteristiche biologiche della persona, e delle differenze di genere, associate a fattori socioeconomici e culturali, che influenzano lo stato di salute e di malattia di ogni persona. Con "medicina di genere" o "medicina genere-specifica" si intende proprio, in termini generali, l'inclusione di una prospettiva di genere nella medicina e nella ricerca.
Alcuni osservatori fanno risalire la “nascita” della medicina di genere all’inizio degli anni ’90 nel campo della ricerca sulle malattie cardiovascolari. Bernardine Patricia Healy, appena diventata Direttrice dell’Istituto di Cardiologia dello Istituto Nazionale della Salute (NIH) degli Stati Uniti, si accorse che la ricerca scientifica in quell’Istituto era condotta solo sugli uomini e sugli animali maschi e che, a livello clinico, le donne erano sottoposte molto meno degli uomini a procedure diagnostiche e terapeutiche tipo coronarografie, trombolisi, stent coronarici. Scrisse quindi un famoso editoriale, intitolato The Yentl Syndrome, riferendosi a Yentl, l’eroina di una storia di B. Singer, che dovette rasarsi il capo e vestirsi da uomo per poter entrare nella scuola ebraica e studiare il Talmud.
Healy si chiedeva se le donne dovessero vestirsi da uomo per essere curate, visto che la ricerca e la medicina stavano discriminando e penalizzando le donne.
Sebbene ci sia ancora molto da studiare, abbiamo a disposizione una crescente quantità di dati epidemiologici, clinici e sperimentali che suggerisce notevoli differenze nell’insorgenza, progressione e manifestazioni cliniche delle malattie comuni a uomini e donne. In Italia, come in molti altri paesi occidentali, nonostante le donne vivano più a lungo degli uomini, l’aspettativa di “vita sana” è equivalente tra i due sessi. Ad esempio, le donne con fibrillazione atriale hanno un maggior rischio di ictus rispetto agli uomini, soprattutto quando l’età supera i 75 anni. La sindrome coronarica acuta si manifesta diversamente negli uomini e nelle donne e spesso ciò causa un ritardo nella diagnosi e conseguente presa in carico nelle donne. Spesso anche le modalità con cui sono costruiti e utilizzati gli strumenti di valutazione delle malattie favoriscono una distorsione della rilevazione dei dati in base a stereotipi di genere. È il caso della psichiatria e psicologia, per cui ci si aspetta che le donne esprimano più facilmente le emozioni e gli uomini mettano più facilmente in atto comportamenti aggressivi o impulsivi. Spesso gli indizi che confermano queste attese vengono facilmente amplificati e indirizzano i percorsi diagnostici. Oppure è il caso dei disturbi neuropsichiatrici infantili, nei quali, oltre alle differenze dovute a sesso, fattori ambientali pre- e post-natali, è possibile che anche gli strumenti diagnostici creino disparità perché identificano prevalentemente sintomi e comportamenti più frequenti nel genere maschile.
Uomini e donne usano diversamente i farmaci e altri interventi sanitari, per motivazioni biologiche (si ammalano diversamente) e socioculturali (hanno diversa attitudine alla salute e alle cure). Secondo i dati dell’Osservatorio Nazionale sull'Impiego dei Medicinali (OsMed) nel 2021 in Italia il 67% delle donne ha ricevuto almeno una prescrizione contro il 58% degli uomini. Queste differenze risultano più marcate nella fascia di età compresa tra i 20 e i 64 anni, in cui le donne sono più esposte all’uso dei farmaci rispetto agli uomini. Non solo è diverso l’utilizzo. È importante notare che uomini e donne rispondono diversamente ai farmaci, perché gli stessi vengono assorbiti ed eliminati in modo diverso o perché ci sono differenze nella sensibilità e distribuzione dei bersagli su cui agiscono queste sostanze. In molti casi le donne hanno concentrazioni di farmaco nel sangue più alte e ciò si riflette in un maggior rischio di reazioni avverse, con conseguente maggiore probabilità di essere ricoverate in ospedale in seguito a queste reazioni.
L’aumentato rischio di effetti indesiderati avvalora la necessità di approfondire le possibili differenze nell’assorbimento, distribuzione ed eliminazione dei medicinali, in termini tecnici la farmacocinetica, così come gli effetti di interazioni con altri medicinali.
In generale, è importante studiare adeguatamente la popolazione femminile, partendo dalla ricerca di base e preclinica.
Anche le cellule usate negli esperimenti di laboratorio, a loro modo, possono esprimere differenze legate al sesso dell’organismo da cui derivano. Ad esempio, i neuroni maschili sono molto più reattivi rispetto ai neuroni femminili allo stress ossidativo come pure ai neurotrasmettitori eccitatori. L’attenzione al sesso è ancora più rilevante negli studi sui modelli animali, dove storicamente si è spesso ignorato che la scelta di topi di sesso maschile o femminile avrebbe potuto modificare i risultati degli esperimenti. Già nel 2014 però linee guida emesse dal NIH degli Stati Uniti raccomandavano di testare farmaci e studiare le malattie in modelli animali di entrambi i sessi per aumentare le chances di comprendere le differenze di genere e la trasferibilità dei risultati ottenuti.
Quando si parla di sperimentazioni cliniche poi è fondamentale pensare e condurre gli studi clinici nell’ottica della medicina di genere. Il primo passo, il più semplice e scontato, è che le donne siano adeguatamente incluse negli studi clinici. Purtroppo, spesso non è così. Diverse indagini hanno dimostrato che le donne sono cronicamente sottorappresentate negli studi clinici, anche quando si studiano malattie la cui prevalenza nelle femmine è simile, o addirittura superiore, a quella negli uomini. Malgrado rappresentino poco più della metà della popolazione, le donne sono spesso sottorappresentate negli studi clinici che studiano l’effetto dei farmaci e altri trattamenti sanitari. Si stima che le donne siano circa il 40% delle popolazioni analizzate negli studi su malattie cardiovascolari, tumori e malattie psichiatriche. Questo fenomeno, spesso chiamato cecità di genere (gender blindness), coinvolge non solo le scienze mediche ma anche quelle sociali, e parte dall’assunzione - sbagliata, come abbiamo visto - che maschi e femmine siano simili, ad eccezione delle malattie legate alla sfera sessuale e ormonale.
Esistono poi motivazioni di natura etica, dettate dal timore che le donne sottoposte a sperimentazione possano andare incontro a gravidanza, compromettendo la salute del feto o del nascituro.
Infine, sembra che le donne siano meno inclini alla partecipazione agli studi anche a causa delle preoccupazioni per il tempo da dedicare alle visite periodiche, alla compilazione di questionari, ecc., a scapito delle responsabilità famigliari e di assistenza a figli e famigliari anziani che spesso si aggiungono alle responsabilità lavorative.
Al di là dell’inclusione di un numero adeguato di donne negli studi, al fine di rappresentare in modo fedele la distribuzione e il carico della malattia in studio nella popolazione generale, è fondamentale che i dati raccolti vengano poi analizzati tenendo conto del genere.
Il sesso e il genere sono variabili fondamentali per interpretare al meglio i risultati degli studi e la generalizzazione degli stessi. È importante che queste analisi vengano specificate nei protocolli e piani di analisi statistica prima di iniziare lo studio.
La richiesta di una maggiore attenzione al genere non è nuova, ma sta certamente diventando centrale nella discussione più ampia sulle tematiche di equità nella ricerca.
La corretta interpretazione del ruolo dei determinanti biologici e socio-culturali sullo studio dei farmaci e trattamenti sanitari è un elemento ormai imprescindibile, al fine di rendere la ricerca più utile, rilevante e, in ultima istanza, etica.
Le discriminazioni che tutt'ora subiscono le donne nella ricerca sperimentale e farmacologica, così come pure nella cura delle patologie richiedono un cambio di prospettiva generale. Da un lato identificare quali sono le priorità più urgenti per creare una medicina più attenta alle differenze di genere, aumentando la consapevolezza e le conoscenze sui meccanismi alla base delle differenze. Dall’altra stimolare lo sviluppo di percorsi scientifici e regolatori che garantiscano lo studio delle popolazioni maschili e femminili in maniera specifica e selettiva, proponendo protocolli di ricerca distinti se esistono differenze fra maschi e femmine nel percorso e nell’esito della stessa malattia. Il riconoscimento delle differenze deve avere il significato essenziale di permettere il miglior trattamento possibile per donne e uomini.
Il fine è l’equità, i mezzi sono la ricerca, la conoscenza e l’attuazione di soluzioni pratiche.
Elementi legislativi come la legge del 2018 che predispone «un piano volto alla diffusione della medicina di genere mediante divulgazione, formazione e indicazione di pratiche sanitarie che nella ricerca, nella prevenzione, nella diagnosi e nella cura tengano conto delle differenze derivanti dal genere» possono dare il via a questo cambio di prospettiva, così come la generale attenzione della Commissione europea, che con il nuovo quadro di finanziamenti, pone l’accento sulla rilevanza di una medicina più aperta alla dimensione del genere.
Sarebbe, però, auspicabile che venissero messi in pratica interventi più marcati, come la richiesta da parte delle autorità regolatorie di protocolli di ricerca e sviluppo specifici per uomini e donne per i nuovi farmaci da utilizzare nelle malattie comuni ai due sessi. Servirebbe analizzare separatamente linee cellulari maschili e femminili, studiare farmacocinetica, tossicità, riproduzione, cancerogenicità in modelli animali di entrambi i sessi e infine includere casistiche adeguate di uomini e donne negli studi clinici e analizzare i risultati separatamente.
Studiare e riconoscere le differenze tra i sessi e i generi è solo il primo passo per garantire equità e appropriatezza della cura. Il tema della salute delle donne è cruciale nella discussione più generale sulla necessità di raggiungere una parità di genere. L’auspicio è che si faccia sempre di più per promuovere una maggiore partecipazione delle donne al mercato del lavoro, sostenere l’imprenditoria femminile e la progressione delle carriere, sviluppare soluzioni di conciliazione vita-lavoro.
L’educazione e autonomia sulle scelte riproduttive e la crescente attenzione dedicata alle misure volte a contrastare la violenza contro le donne sono infine ulteriori elementi indispensabili per poter finalmente parlare di equità.
Rita Banzi - Centro di Politiche regolatorie in Sanità
Silvio Garattini - Presidente Istituto di RIcerche Farmacologiche Maio Negri
Editing Raffaella Gatta - Content editor