ll disagio mentale tra gli adolescenti è davvero in crescita? Cos’è, come si manifesta, quali sono le cause e come intervenire preventivamente per evitare che si trasformi in patologia.
Fanno uso di droghe. Sopprimono ansia ed angoscia facendosi del male. Smettono di mangiare o, aposteriori, cercano di eliminare attraverso il vomito ogni traccia di voracità incontrollate. Sono sempre più isolati, a volte violenti. Vivono l’estenuante fatica di crescere dentro famiglie spesso incapaci di dare un nome al loro tormento. Fino a compiere, talvolta, un gesto estremo.
Cresce, almeno così sembra, il disagio mentale tra i giovani, con un adolescente su 7 nel mondo che vive con un problema di salute mentale diagnosticato (UNICEF, 2021). In Italia, negli ultimi 10 anni, il numero di utenti dei servizi di neuropsichiatria infantile e adolescenziale (NPIA) è raddoppiato, coinvolgendo circa due milioni di bambini e ragazzi.
Pare che anche l'età di esordio delle malattie psichiatriche si stia abbassando: secondo l'Organizzazione mondiale della Sanità (Oms) il 50% per cento dei disturbi psichici, in particolare depressione, ansia e disturbi comportamentali, esordisce prima dei 14 anni.
Mentre ogni anno, secondo l’Unicef, nel nostro pianeta si suicidano circa 46 mila adolescenti, più di uno ogni 11 minuti.
Il disagio giovanile è una condizione complessa che si manifesta nel periodo dell’adolescenza, quel delicatissimo passaggio dall’infanzia alla piena maturazione che biologicamente avviene tra gli 11 e i 25 anni. Quando si mettono assieme i mattoncini che formano l’identità personale e si verifica quella riorganizzazione strutturale del cervello che contribuisce a definire capacità, abilità, modalità che costituiranno il modo di agire e pensare da adulti.
“Si tratta di periodo caratterizzato da profondi cambiamenti psicologici, sociali e neurobiologici. In particolare, si osservano processi come la potatura delle connessioni sinaptiche e la mielinizzazione, che rendono il cervello più efficiente e ne affinano le funzioni cognitive superiori, come il controllo degli impulsi e la pianificazione”, sottolinea Alberto Parabiaghi, ricercatore presso l’Unità per la Qualità degli Interventi e la Tutela dei Diritti in Salute Mentale dell’Istituto Mario Negri. Questi cambiamenti, messi in luce dalla ricerca scientifica, continuano fino ai 24-25 anni, dimostrando come l’adolescenza sia una fase di transizione complessa e prolungata. Riconoscere questa prospettiva più ampia permette di affrontare il disagio psichico con interventi mirati e adattati a tutti i livelli di gravità, non limitandosi ai confini anagrafici della minore età.
Nel corso dell’adolescenza i giovani sperimentano una progressiva separazione non solo dalle famiglie, ma anche da riferimenti culturali e sociali che, se accompagnata dalla mancanza di vere alternative, lascia molti ragazzi a galleggiare in una specie di limbo esistenziale. Fluttuano senza un chiaro senso di appartenenza, né risorse di supporto.
Una condizione che, secondo la teoria di Bandura, può portarli a interrompere il proprio percorso evolutivo attraverso meccanismi di deresponsabilizzazione e comportamenti aggressivi, ad allontanarsi dalla morale comune e dalla società degli adulti.
Questo processo potrebbe favorire fenomeni come il bullismo, il cyberbullismo, l’aggressività e, in casi estremi, il crimine, e spiegare alcuni comportamenti devianti dei giovani che non sono solo espressione di un disagio psichico, ma rappresentano anche una difficoltà nel costruire connessioni significative con la società adulta.
Tra i disturbi più frequenti legati al disagio giovanile:
Di ansia e depressione si ammalano sempre più giovani e sempre prima. Secondo gli ultimi dati diramati dalla Società italiana di pediatria, un giovane su quattro nel nostro paese soffre di depressione mentre uno su cinque manifesta disturbi d’ansia. Fondamentale è riconoscere per tempo i sintomi di questi disturbi. In particolare, quelli della depressione sono spesso diversi negli adolescenti rispetto ai soggetti adulti: includono non solo tristezza e isolamento, ma anche irritabilità, rabbia e comportamenti autolesionisti.
Aumenta inoltre il numero degli adolescenti che si sottrae alla vita sociale isolandosi da un mondo percepito come fonte minacciosa di stimoli, perturbazioni angoscianti da cui sentono di doversi proteggere. Secondo una recente indagine condotta dall’Associazione Nazionale DiTe (Dipendenze tecnologiche, gap e cyberbullismo) in collaborazione con il portale studentesco Skuola.net “la ridotta capacità di relazionarsi ‘vis a vis’ si riflette in una crescente assenza di amici in carne ed ossa: il 26,8% non ha legami significativi coltivati regolarmente con incontri al di fuori delle piattaforme digitali. E nella riduzione della capacità di uscire di casa: il 14,4% spesso se non sempre fa fatica a incontrare i propri amici dal vivo”. Una delle manifestazioni estreme dell’isolamento giovanile è il fenomeno degli hikikomori, termine giapponese che significa “isolarsi”, “stare in disparte”: gli Hikikomori possono decidere di non uscire di casa per mesi o addirittura per anni. Episodi di isolamento volontario riguardano oltre 60.000 adolescenti italiani.
Negli ultimi anni, in Italia, si è osservato un preoccupante aumento dell'aggressività tra gli adolescenti. Gli episodi di violenza tra giovani sono diventati più frequenti e diffusi, richiedendo un'attenzione urgente da parte delle istituzioni e della società.
Diete estreme o disordini alimentari che riflettono conflitti emotivi, insoddisfazione corporea o pressioni sociali possono sfociare in disturbi alimentari seri come anoressia, bulimia o binge-eating disorder, che stanno colpendo sempre più adolescenti di entrambi i sessi. Nell’ultimo triennio secondo i dati dell’Iss si è registrato un aumento del 30% dei casi di anoressia e bulimia tra i giovanissimi sul territorio nazionale. 300mila invece i giovani (soprattutto ragazze) affetti da drunkoressia: bevono per dimagrire e allo stesso tempo non mangiano per poter bere.
L’ultima Relazione annuale al Parlamento sul fenomeno delle tossicodipendenze in Italia ha rilevato che quasi 960mila giovani tra i 15 e i 19 anni riferiscono di aver consumato almeno una volta nel corso dell’anno sostanze illegali come: cannabis (al primo posto) cocaina, stimolanti, allucinogeni e nuove sostanze psicoattive. È noto che l’abuso di sostanze può avere effetti molto negativi su un cervello in crescita come quello degli adolescenti: può influenzare ad esempio memoria, apprendimento, autocontrollo e aumentare il rischio di sviluppare dipendenze in età adulta.
Il binge drinking, letteralmente “abbuffata di alcolici”, è uno dei fenomeni più diffusi tra i giovanissimi. I giovani non hanno la capacità di metabolizzare l’alcol allo stesso modo degli adulti: bastano 2-3 mesi di overdose di alcolici nei fine settimana per causare una riduzione del 10-20% della memoria e della capacità di orientamento.
Strafatti, sì, ma di social o di videogame. Di dipendenza, infatti, possiamo parlare non solo in relazione alle droghe o all’alcol. In una società sempre più digitale e interconnessa si sviluppano nuove forme di addiction collegate all’ “abuso” di Intenet e social (TikTok, Instagram e OnlyFans sono quelli preferiti dalla generazione Z ) o anche all’abuso di videogiochi. In quest’ultimo caso si può parlare di “Internet Gaming Disorder” che comprende la dipendenza da videogiochi sia online ed offline.
Capita che quando non possono connettersi ai social o quando sono costretti a interrompere la sessione di gioco i ragazzi manifestino proprio i sintomi tipici dell'astinenza: diventano nervosi e irritabili così come capiterebbe in caso di astinenza da sostanze d’abuso. Di internet gaming disorder soffrono in Italia 500mila adolescenti tra gli 11 e i 17 anni. Mentre quasi 100mila fanno un uso patologico dei social media.
Gli adolescenti si tagliano e feriscono usando il loro corpo per esprimere il disagio di stare al mondo. A volte lo fanno per controllare e interrompere un dolore mentale troppo forte: preferiscono il dolore fisico a quello psicologico e fanno in modo che ne prenda il posto. Altre volte lo fanno “semplicemente” per sentirsi vivi: meglio un dolore fisico che non sentire niente. Secondo i dati diramati da SINPIA, Società Italiana di Neuropsichiatria dell’Infanzia e dell’Adolescenza sono circa il 27% in più in Italia, rispetto al periodo pre Covid-19, i ragazzi e le ragazze che “si tagliano”, presentano pensieri inerenti il suicidio o mettono in atto tentativi di suicidio.
Spesso si attribuisce l’aumento dei casi di disagio giovanile alla pandemia, ma il Covid-19 non è di sicuro l’unica causa. Durante un’età in cui il corpo e le relazioni sociali rivestono un’importanza centrale, la chiusura delle scuole, il confinamento domestico, la limitazione delle interazioni con i coetanei e l’incertezza sul futuro hanno sicuramente contribuito all’incremento di fenomeni come depressione, autolesionismo e disturbi alimentari. Ma la letteratura scientifica documenta, già prima del periodo pandemico, una tendenza crescente nel numero dei giovani che esprimevano disturbi psichici. Nel caso della Lombardia, ad esempio, «è verosimile che il Covid abbia esacerbato un fenomeno che già̀ stava accadendo» ha sottolineato Antonio Clavenna, ricercatore dell’Istituto Mario Negri tra gli autori di uno studio che ha indagato l’impatto della pandemia sulla salute mentale dei giovani lombardi.
Inoltre, è importante superare una visione semplicistica basata su un rapporto lineare di causa-effetto. Il disagio giovanile deve essere compreso attraverso un modello di causalità più complesso, che tenga conto dell’interazione tra fattori di rischio e fattori di protezione. Questi fattori non agiscono isolatamente, ma si influenzano reciprocamente, creando circoli viziosi o virtuosi. Ad esempio, in presenza di fattori di rischio come isolamento sociale, pressione per la performance o accesso facilitato a sostanze, il disagio può amplificarsi. Al contrario, fattori di protezione come il supporto e la relazione familiare, una rete sociale positiva e attività educative, sportive e sociali coinvolgenti possono interrompere questi circoli viziosi, promuovendo un percorso di crescita più sano e più protetto.
In questo senso, il corso che il disagio assume – verso una direzione virtuosa o viziosa – dipende dal delicato equilibrio tra questi fattori, che insieme definiscono un rapporto di causalità dinamico e multidimensionale. Comprendere questa complessità è essenziale per progettare interventi efficaci e mirati.
Oltre alla pandemia, è fondamentale considerare altri fattori caratteristici della società moderna che possono aver contribuito all’incremento del disagio giovanile:
Negli ultimi tempi si è registrato un aumento significativo delle richieste di aiuto tra i giovani. Fenomeno spesso descritto come una specie di epidemia, un aumento dilagante di disagio. Ciò solleva questioni cruciali: se si tratta davvero di una crisi emergenziale, è indispensabile correre al più presto ai ripari, rafforzando gli interventi e ampliando l’accesso alle cure per arginare il fenomeno. Tuttavia, prima di tutto, è necessario comprenderlo più a fondo. L’aumento dei casi che ci raccontano i dati, infatti, potrebbe non indicare una crescita incontrollata del fenomeno, ma piuttosto riflettere una combinazione di fattori.
La maggiore attenzione pubblica al benessere psichico dei giovani, ad esempio, potrebbe aver favorito un aumento nell’accesso alle cure e una più precoce intercettazione del disagio. Inoltre, espressioni del disagio più allarmanti, come l’autolesionismo e il ritiro sociale, contribuiscono a rafforzare la percezione di una situazione critica. Tutti questi elementi sottolineano l’importanza di distinguere tra un reale aumento dei disturbi psichiatrici e una maggiore visibilità di problemi psichici ed emotivi, che spesso amplificano la percezione di emergenza senza necessariamente corrispondere a un drastico peggioramento della situazione.
Per comprendere meglio il fenomeno è fondamentale distinguere tra disagio psichico ed emotivo e disturbi psichiatrici conclamati.
Una distinzione che ha implicazioni imprescindibili per la prevenzione: abbassare tutte le soglie di accesso ai servizi è essenziale per intercettare precocemente il disagio e ridurre il rischio di evoluzione verso disturbi più gravi. Tuttavia, è altrettanto importante evitare di sollevare allarmi sociali ingiustificati. Un aumento dei flussi ai servizi potrebbe non rappresentare necessariamente un peggioramento della situazione, ma piuttosto il risultato di una maggiore sensibilizzazione e accessibilità delle cure.
Andando più nel dettaglio i dati emersi da uno studio recente mostrano che il 50% dei disturbi psichici insorge entro i 16 anni e il 75% entro i 25 anni. I disturbi più gravi, come la schizofrenia e il disturbo bipolare, continuano a manifestarsi prevalentemente nella tarda adolescenza e nella giovane età adulta, evidenziando una certa stabilità nell’età di esordio rispetto al passato. Dal punto di vista del carico globale della malattia, la ricerca ci dice che i disturbi psichiatrici rappresentano la principale causa di disabilità tra i giovani di età compresa tra i 10 e i 24 anni, contribuendo al 45% delle disabilità totali in questa fascia di età.
L’età di esordio dei disturbi non sembra quindi essersi abbassata, si è piuttosto abbassata l’età in cui il disagio o i sintomi vengono intercettati dai servizi clinici o si manifestano in modo evidente. Questo fenomeno potrebbe riflettere un miglioramento delle capacità diagnostiche e un aumento dell’attenzione sociale verso questi temi o modalità più estreme con cui i giovani manifestano le proprie difficoltà, ma non sempre coincide con una reale crescita dei casi gravi.
Pertanto, non si tratta di un'epidemia in senso stretto, ma di un fenomeno più articolato che richiede interventi mirati per affrontare sia il disagio crescente che le sue cause profonde. Una visione bilanciata, basata sui dati epidemiologici e sulle dinamiche sociali, può aiutare a sviluppare strategie di prevenzione e trattamento più efficaci, affrontando i fattori di rischio emergenti e potenziando le risorse di supporto per i giovani.
La cura del disagio emotivo e psichico giovanile non può essere concepita se non in termini di prevenzione. Prevenzione, in questo senso, non significa semplicemente intervenire prima che il disagio si trasformi in patologia, ma adottare un approccio integrato e continuo che agisca su tutti i livelli del suo sviluppo e in tutte le fasce d’età di questa lunga fase di transizione all’età adulta. Questo approccio si basa sull’idea che prevenire non significhi solo impedire l’insorgenza del disagio, ma anche intervenire lungo tutto il suo decorso, affrontando i fattori di rischio e promuovendo fattori di protezione a qualsiasi livello di gravità. C’è quindi una componente preventiva in qualsiasi approccio di cura e si definisce per il suo rivolgersi a tali fattori piuttosto che ai sintomi.
Come spiega Parabiaghi, “Prevenire significa abbracciare tutte le fasi dello sviluppo del disagio, non limitandosi a bloccarlo sul nascere ma intervenendo in ogni momento del suo decorso. La prevenzione deve essere continua, integrata e mirata, promuovendo stili di vita positivi e supportando i giovani attraverso percorsi educativi e formativi che coinvolgano anche le famiglie e le comunità”.
Questo concetto di prevenzione abbraccia quindi tutte le fasi dell’adolescenza e della prima età adulta, riconoscendo la complessità di questi periodi e l’importanza di interventi mirati su più livelli. Dall’educazione alimentare alla promozione dell’attività fisica, dalla cura del sonno all’educazione digitale, ogni aspetto della vita dei giovani può diventare una leva per costruire resilienza e benessere. Coinvolgere le famiglie e le comunità locali è cruciale per creare ambienti di supporto che favoriscano una crescita armoniosa e prevenire l’evoluzione del disagio in disturbi conclamati.
Marianna Monte | Giornalista
con la consulenza di
Alberto Parabiaghi | Unità per la Qualità degli Interventi e la Tutela dei Diritti in Salute Mentale